Il disastro della pandemia sta lasciando un’eredità pesante per il mondo del lavoro: le proiezioni per quest’anno indicano in almeno un milione i posti di lavoro che scompariranno o che esistono ormai solo sulla carta, retti da una impalcatura costosissima di sussidi che non potremo permetterci a lungo.

L’impatto della disoccupazione sulla povertà è ampiamente studiato ma la complessità del fenomeno “povertà” implica fattori ulteriori, rispetto alla mancanza di reddito e rimanda anche all’accesso alle opportunità e quindi alla possibilità di partecipare pienamente alla vita economica e sociale delle comunità.

Ogni sforzo per contrastare la povertà, soprattutto nei prossimi mesi, quando verranno dispiegate le enormi risorse dei fondi europei, deve interrogarsi su come rendere le nuove opportunità che si profileranno realmente fruite, focalizzandosi sull’imperfetta sovrapposizione tra la disponibilità di beni atti a soddisfare i bisogni e il loro reale utilizzo. I

Sappiamo fin troppo bene che non basta che sia sancito un diritto o che sia accessibile un’opportunità perché ciò si trasformi in migliori funzionamenti sociali. La capacità di utilizzo delle risorse non è data univocamente per tutti gli individui, ma dipende da condizioni psicologiche – mediate da fattori esperienziali e personali – le quali consentono o meno l’attivazione necessaria per fruirne.

La prima esplorazione dei correlati psicologici della povertà possono farsi risalire allo storico esperimento di Marienthal, condotto negli anni Trenta del Novecento. Si voleva indagare su di un sobborgo di Vienna, Marienthal, colpito da un impoverimento generalizzato quando l’unica fabbrica del borgo, una filanda grazie alla quale si guadagnavano da vivere 450 famiglie sulle 478 che abitavano il paese, fu costretta a chiudere per la crisi mondiale conseguente al crollo di Wall Street del 1929.

A quel punto, per i cittadini di Marienthal, l’85% delle cene era costituito dagli avanzi del pranzo, per strada scomparvero cani e gatti diventati cibo appetibile, il vestiario venne ridotto al minimo.

Gli osservatori notarono subito che, in questo quadro, non erano trascurabili i costi psicologici della perdita del lavoro e della povertà conseguente. Gli studi rilevano 4 tipi di atteggiamento in reazione al nuovo statpovertào: solo un quarto circa delle famiglie mostravano di reagire attivamente alla nuova situazione dandosi obiettivi, facendo progetti per il futuro e reiterando i tentativi di trovare lavoro. Tutte  le altre, a livelli diversi di gravità, mostravano rassegnazione, quando non apatia o vera e propria disperazione, che si concretizzava in atteggiamenti di indifferenza, assenza di aspettative, accettazione dello stato attuale e della sua ineluttabilità fino alla patologia depressiva, all’alcolismo, all’accattonaggio, senza alcun tentativo concreto e neppure alcun progetto di modificare la situazione attuale.

Questa condizione complessiva di passività reattiva alla povertà è uno degli ostacoli principali all’efficacia degli interventi di welfare più orientati a rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione personale e all’inclusione sociale.

Le ricerche più recenti hanno posto l’accento sulla spirale della cosiddetta “impotenza appresa”, che la povertà elicita in coloro che ne sono soggetti. Si tratta dell’atteggiamento rinunciatario, accompagnato dalla convinzione che qualsiasi cosa si faccia non otterrà risultato, che si struttura come conseguenza di ripetuti fallimenti. In questi casi le persone percepiscono sé stesse come inefficienti nell’esercitare il controllo sugli eventi significativi della vita; ciò conduce all’aspettativa che anche in futuro saranno egualmente inefficienti e comporta una diminuzione dei tentativi di attuare risposte strumentali anche in contesti diversi da quello in cui inizialmente si è subita la frustrazione: le persone possono così ridurre le reazioni agli eventi al punto tale di non darne più, giungendo all’impotenza.

In un percorso che dura da almeno tre decenni i mutamenti del mercato del lavoro come della qualità delle relazioni economiche, sociali e affettive hanno condotto in condizioni di nuova marginalità e più ampia percezione di impotenza una vasta platea di persone in tutto il mondo occidentale. La pandemia da Covid19 e le misure adottate per contenerla non hanno che amplificato a dismisura la sofferenza già dolorosa delle fasce più deboli della popolazione.

Le conoscenze psicologiche sono oggi in grado di costruire interventi volti ad attutire le ripercussioni della condizione di povertà e marginalità sulla salute psichica delle persone e di sostenere l’utilizzo attivo delle risorse e delle occasioni messe a loro disposizione.

Siamo in grado, da psicologi, di intervenire professionalmente sui meccanismi di rassegnazione e di impotenza – che impediscono una fruizione degli interventi di welfare e delle possibilità di sviluppo offerte dalla vita – per modificarli e sostenere lo sviluppo di resilienza, di capacità di adattamento, di problem solving creativo: l’impatto sociale degli interventi di contrasto alla povertà educativa può trarre enorme beneficio dall’applicazione strutturata di queste conoscenze.

 

 

 

Questo articolo è l’aggiornamento di un intervento apparso nel 2019 sulla rivista di settore “Il Punto – Pensioni&Lavoro”, diffuso online al’URL https://www.ilpuntopensionielavoro.it/site/home/il-punto-di-vista/welfare-imparare-a-usare-i-diritti.html